Dunque da Torino arrivarono ad Asti gli scheletri delle due balenottere di Montafia e Bagnasco. Come tutti gli altri reperti accolti trovarono posto nel deposito del museo: altri armadi, nuove catalogazioni. Oltre allo stesso braccio di mare in cui hanno nuotato milioni di anni fa, i due misticeti hanno in comune l’anonimato dei luoghi in cui sono stati trovati: non esistono documenti dell’epoca che indichino con esattezza le località di Montafia e di Bagnasco in cui hanno visto la luce. I due studiosi che ne erano a conoscenza, perché intervennero direttamente sugli scavi, non le indicarono nei loro resoconti, ma questo, anziché impoverire la storia, la arricchisce di mistero plasmato su un paesaggio custode di così molteplici affioramenti e segni del passato da autorizzarci a pensare che le antiche balene, qui, potrebbero essere state trovate dappertutto e altre potrebbero essercene ancora ovunque, nascoste quietamente da qualche parte.
Uno di quei due esperti si chiamava Bartolomeo Gastaldi, appassionato geologo e paleontologo nelle cui mani nel 1874 finirono alcune vertebre della balena di Montafia. Scrive Alessandro Portis nel Catalogo sui cetacei fossili rinvenuti nell’Astigiano (1885) che Gastaldi “conobbe la località precisa in cui erano state trovate e vi fece eseguire un ampio scavo che gli procurò: il cranio, un rilevante numero di vertebre a cominciare dall’atlante, una scapola e un numero considerevole di coste di una piccola Balenottera“. Il restauro del fossile, a cura dello stesso Gastaldi, avvenne dopo “molti mesi e una pazienza ed abilità ammirabili”. Studiando i reperti, il professor Portis osservò successivamente che il cranio era “assai bene conservato, lunghissimo (2,25 m.), diritto, molto depresso e strettissimo”.
“Eccolo qui” mi ha detto ad agosto Piero Damarco, il paleontologo che ogni volta mi racconta l’infinito passato degli esemplari di cui vado scoprendo la storia. Il cranio era poggiato su un tavolo, nel deposito del museo, contornato da attrezzi e materiali di restauro al quale sarebbe stato sottoposto di lì a poco. “Ed eccolo qui” mi ha ripetuto un mese dopo, a settembre, davanti alla teca di vetro in cui l’enorme teschio era stato sistemato e dove lo può vedere chi visita la mostra “Balene preistoriche” all’ex chiesa del Gesù.
Damarco lo definisce “uno splendido cranio che mostra le caratteristiche di un balenotteride arcaico in cui l’intera volta cranica mantiene morfologie tipiche dei misticeti primitivi”. “I rami mandibolari – fa osservare – presentano attacchi muscolari molto sviluppati, a differenza delle balenottere moderne e questo suggerisce che questa specie fossile si alimentasse in modo diverso da quelle attuali. Probabilmente non aveva le pieghe golari tipiche delle balene moderne e doveva utilizzare la muscolatura della mandibola in modo più potente delle specie di oggi”.
Mentre il cranio è in esposizione, lo scheletro parziale della balenottera si fa studiare dal cetologo Michelangelo Bisconti, impegnato a metterlo a confronto con quelli di esemplari di varie parti del mondo per capire analogie e differenze anatomiche tra le varie popolazioni di balenottere antiche e contemporanee. Si preannunciano novità significative. Per ora ci restano dettagli sullo stato primitivo dei due mammiferi marini: non avevano la pinna dorsale e, per questo, erano meno veloci e probabilmente meno stabili nel movimento di quelli attuali.