FOSSILI E TERRITORI
I nuovi pezzi del Museo Paleontologico di Asti e i luoghi in cui sono stati trovati

Le balenottere di Montafia
L'affioramento di frazione Vignole
Blocco di terra con conchiglie

Se l’antico mare avesse potuto scegliere un posto dove fermarsi per sempre da queste parti, avrebbe deciso per Montafia. Qui dove ha lasciato come ricordo di sé due balenottere, avvolte nei sedimenti ed espulse da colline di sabbie gialle il cui grembo racconta le origini della terra.

Sono colline che ancora oggi custodiscono affioramenti del Pliocene, pareti friabili che si rincorrono da un punto all’altro del paese, dal centro alle frazioni di Vignole e Bagnasco, e che racchiudono un pezzo di vita preistorica cristallizzata, raccontata da una generosa varietà di conchiglie abitate da molluschi vissuti intorno ai 3 milioni e mezzo di anni fa.

La stessa epoca in cui nuotarono le balenottere (Balaenoptera cortesii varietà portisi) che scavi casuali di mani contadine prima e di attrezzi di esperti paleontologi poi tirarono fuori dalla terra quando l’orologio del tempo correva nell’Ottocento.

Lungo viaggio senza più il mare con approdo finale
Primo pezzo della balena in partenza da Torino sotto la sorveglianza dei paleontologi (da sinistra): Piero Damarco, Daniele Ormezzano, Alessandra Fassio, Federico Imbriano
Arrivo della cassa al Museo di Asti

La sezione toracica del grande scheletro appartenuto all’esemplare scoperto a Bagnasco è stato il primo pezzo a essere imballato nei fogli protettivi di pluriboll e a essere deposto con meticolosa cura in una delle tante casse che dal Museo Regionale di Scienze Naturali di Torino sono partite per Asti.

Io c’ero, era il mese di aprile 2019. E in quella mattina nelle stanze del museo, contornate da lunghi armadi a muro dai cui vetri si affacciavano ossa preistoriche, gli uomini che si affaccendavano intorno ai pezzi di scheletro erano mossi da un gaio fervore, nella sottile euforia di stare dentro a un giorno speciale: cominciava il trasferimento di 145 reperti fossili di grandi cetacei vissuti nel Mare Padano, ritrovati nell’Astigiano, trasportati e custoditi a Torino e pronti finalmente, dopo un tempo lunghissimo che per alcuni esemplari aveva sfiorato i 200 anni, a compiere il viaggio inverso per essere accolti al Museo Paleontologico di Asti.

Gli uomini posarono per una foto ricordo, quel giorno, accanto al grande pezzo fossilizzato della balena e tanti altri scatti seguirono mentre ripulivano, commentavano, spostavano, avvolgevano, imballavano, deponevano i pezzi nei cassoni e li sigillavano. C’erano lì alcuni dei protagonisti della lunga trattativa sulla restituzione dei reperti tra il Parco Paleontologico Astigiano, il Museo Regionale di Scienze Naturali e il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino.

Nella foto ricordo gli esperti sorridono senza ombra di circostanza, la loro soddisfazione è palpabile, ma non posso dimenticare la carezza solitaria di Daniele Ormezzano, conservatore del museo, alla prima cassa che si portò via le ossa della balena, resti su cui nelle silenziose stanze degli animali preistorici chissà quante volte aveva fatto correre lo sguardo. E poi, quel giorno, il commiato concentrato nello sfioramento di pochi secondi dell’involucro di legno, perfetta sintesi del gesto amorevole che prima trattiene e poi lascia andare, protettivo e liberatorio insieme. Sinceramente commovente.

L'esemplare dallo splendido cranio
Il cranio dell'esemplare di Montafia in mostra all'ex chiesa del Gesù

Dunque da Torino arrivarono ad Asti gli scheletri delle due balenottere di Montafia e Bagnasco. Come tutti gli altri reperti accolti trovarono posto nel deposito del museo: altri armadi, nuove catalogazioni. Oltre allo stesso braccio di mare in cui hanno nuotato milioni di anni fa, i due misticeti hanno in comune l’anonimato dei luoghi in cui sono stati trovati: non esistono documenti dell’epoca che indichino con esattezza le località di Montafia e di Bagnasco in cui hanno visto la luce. I due studiosi che ne erano a conoscenza, perché intervennero direttamente sugli scavi, non le indicarono nei loro resoconti, ma questo, anziché impoverire la storia, la arricchisce di mistero plasmato su un paesaggio custode di così molteplici affioramenti e segni del passato da autorizzarci a pensare che le antiche balene, qui, potrebbero essere state trovate dappertutto e altre potrebbero essercene ancora ovunque, nascoste quietamente da qualche parte.

Uno di quei due esperti si chiamava Bartolomeo Gastaldi, appassionato geologo e paleontologo nelle cui mani nel 1874 finirono alcune vertebre della balena di Montafia. Scrive Alessandro Portis nel Catalogo sui cetacei fossili rinvenuti nell’Astigiano (1885) che Gastaldi “conobbe la località precisa in cui erano state trovate e vi fece eseguire un ampio scavo che gli procurò: il cranio, un rilevante numero di vertebre a cominciare dall’atlante, una scapola e un numero considerevole di coste di una piccola Balenottera“. Il restauro del fossile, a cura dello stesso Gastaldi, avvenne dopo “molti mesi e una pazienza ed abilità ammirabili”. Studiando i reperti, il professor Portis osservò successivamente che il cranio era “assai bene conservato, lunghissimo (2,25 m.), diritto, molto depresso e strettissimo”.

“Eccolo qui” mi ha detto ad agosto Piero Damarco, il paleontologo che ogni volta mi racconta l’infinito passato degli esemplari di cui vado scoprendo la storia. Il cranio era poggiato su un tavolo, nel deposito del museo, contornato da attrezzi e materiali di restauro al quale sarebbe stato sottoposto di lì a poco. “Ed eccolo qui” mi ha ripetuto un mese dopo, a settembre, davanti alla teca di vetro in cui l’enorme teschio era stato sistemato e dove lo può vedere chi visita la mostra “Balene preistoriche” all’ex chiesa del Gesù.

Damarco lo definisce “uno splendido cranio che mostra le caratteristiche di un balenotteride arcaico in cui l’intera volta cranica mantiene morfologie tipiche dei misticeti primitivi”. “I rami mandibolari – fa osservare – presentano attacchi muscolari molto sviluppati, a differenza delle balenottere moderne e questo suggerisce che questa specie fossile si alimentasse in modo diverso da quelle attuali. Probabilmente non aveva le pieghe golari tipiche delle balene moderne e doveva utilizzare la muscolatura della mandibola in modo più potente delle specie di oggi”.

Mentre il cranio è in esposizione, lo scheletro parziale della balenottera si fa studiare dal cetologo Michelangelo Bisconti, impegnato a metterlo a confronto con quelli di esemplari di varie parti del mondo per capire analogie e differenze anatomiche tra le varie popolazioni di balenottere antiche e contemporanee. Si preannunciano novità significative. Per ora ci restano dettagli sullo stato primitivo dei due mammiferi marini: non avevano la pinna dorsale e, per questo, erano meno veloci e probabilmente meno stabili nel movimento di quelli attuali.

Vertebre fossili nei muri delle case di Bagnasco
Particolare della balena di Bagnasco
Conchiglie nelle sabbie astiane

L’altro studioso che seppe con precisione, per esserci stato nel 1830, dove fu estratta dalla terra la balena di Bagnasco si chiamava Étienne Borson. Geologo e mineralista francese, cultore della paleontologia, ne illustrò i resti in un studio due anni prima di morire a Torino e raccontò particolari della sua missione in terra astigiana che ancora oggi ci stupiscono.

Scrisse, per esempio, della grande quantità di ossa fossili che osservò fuori dallo scavo e che riconobbe anche nei muri delle case: usati come materiale di costruzione, resti interi o fratturati che certamente, indicò, erano appartenuti a qualche grande esemplare. E rifletté sui tanti detriti di animali dell’antico mondo, così lo definì, che la scienza aveva per sempre perduto. Quanto allo scavo, già avviato quando arrivò, Borson avrebbe desiderato ampliarlo, ma fu fermato dal proprietario del terreno.

Un particolare che ci farà sorridere lo racconta Alessandro Portis. Borson disegnò i resti della balenottera, ma senza riuscire a stabilire a quale cetaceo appartenessero specificatamente e di questo si rammaricò. Un frammento “fu montato sopra una tavola ed esposto in Museo in modo da mostrare la faccia inferiore anziché la superiore”. Sicché, scrive Portis, “in tal guisa esso si presenta sotto un aspetto veramente strano”. Problema: per tale ragione “sarà facile lo spiegarci il perché tale fossile sia stato sì a lungo esposto e sia passato sotto gli occhi di tutti quelli che visitarono le Collezioni, il più sovente in fretta, senza aver trovato chi ne desse la giusta interpretazione“. Soluzione: “Intraprendendo la rivista dei nostri Cetacei fossili, ho per prima cosa fatto voltare questo pezzo e, quantunque mutilato, non tardai a riconoscere in esso alcune delle principali caratteristiche distinguenti il Plesiocetus (Balaenoptera) Cortesii“.

L’esperto concluse che si trattava di “un esemplare molto adulto e tanto più molto guasto per varie cause”.

Affioramenti con indizi sull'antico mondo
Il sindaco Giovanni Marchese
I nidi dei gruccioni nell'affioramento

Chissà cosa penserebbero oggi Gastaldi, Borson e Portis aggirandosi per Montafia come faccio insieme al sindaco Giovanni Marchese. La magia degli affioramenti può sorprenderti nel silenzio di un bosco o lambendo una strada quotidianamente percorsa dalle auto, a breve distanza dal centro del paese o a pochi chilometri, già nelle frazioni. Ci sono versanti collinari, in cui riposano le conchiglie, dove gli alberi si arrampicano fino alla sommità (“il cappello del Villafranchiano” direbbe Damarco), o pareti nude di sabbie astiane, con un fronte imponente lungo centinaia di metri, piene di buchi in cui nidificano i coloratissimi gruccioni. E’ la vita che palpita nell’ex imponente cava in cui è stata estratta la terra per costruire rilevati stradali. Chissà quante testimonianze dell’antico mare sono finite in bocca alle ruspe.

Grandioso uno degli affioramenti di Vignole che unisce l’aspetto paleontologico, con le conchiglie visibili a occhio nudo, a quello naturalistico: una stazione ornitologica è in funzione per studiare gli uccelli che hanno eletto a dimora questo luogo singolare e carico di fascino. Gli strati racchiudono i gusci dei molluschi bivalvi (bianchi di madreperla quelli dell’Isognom maxillatus, a raggiera quelli del Pecten) vissuti nel Mare Padano, in zone relativamente vicine alla costa e in acque ricche di ossigeno, preceduti dalla Bufonaria marginata, la conchiglia attorcigliata su se stessa.

L’equilibrio è fragile: in un altro affioramento piccoli blocchi di terra, a cui stanno aggrappati resti di conchiglie, si staccano, dopo aver patito la siccità e l’effetto contrario delle piogge, e rovinano giù. Il passaggio dei cinghiali in alcuni tratti fa il resto. I cercatori di fossili si sono già serviti da tempo.

Il Comune ha composto una piccola collezione e un giorno trasformerà le ex scuole di Vignole, addossate alla chiesa di S. Maria, in un centro espositivo dedicato alla storia paleontologica del territorio. “Basta smuovere un po’ la terra ed è un affioramento continuo” dice il sindaco.

La bellezza, qui, è soprattutto sapersi in luoghi aperti che sanno ancora raccontare il mare, dove il tempo ha seminato indizi e mantenuto tracce. Segnali dell’antico mondo, direbbe Borson, per collezionisti di stupori contemporanei.

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Testo: Laura Nosenzo con la consulenza di Piero Damarco, paleontologo e conservatore del Museo Paleontologico di Asti.

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Foto: Laura Nosenzo.

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(9ª puntata, 27 dicembre 2021)

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Grazie a Pier Giuseppe Chiadò  Fiorio e alla Biblioteca del Museo Regionale di Scienze Naturali di Torino per aver messo a disposizione riproduzioni e tavole della “Mémoire sur qualques ossemens fossiles trouvés en Piémont” del professor Borson.