FOSSILI E TERRITORI
I nuovi pezzi del Museo Paleontologico di Asti e i luoghi in cui sono stati trovati

Il delfino di Camerano Casasco
Ricostruzione scheletro e cranio del delfino
I denti scambiati per quelli di asino

Scordatevi gli ampi panorami che dalla sommità di Camerano Casasco liberano lo sguardo sulle Alpi e sui borghi di Montechiaro, Villa San Secondo, Cossombrato, Chiusano: ricami di castelli, torri, chiese e case a grappolo.

Per andare a cercare il rifugio del delfino fossile dell’antico mare dobbiamo scendere a valle e imboccare il sentiero di località Riero, un posto dove fino a trent’anni fa c’erano campi coltivati e ora solo boschi, dove l’invadenza della robinia ti viene incontro appena imbocchi la strada sterrata.

Mauro Pelissero, l’ex sindaco del paese, ha una storia da raccontarmi perché da bambino l’hanno raccontata a lui: come avvenne, un giorno di maggio del 1891, il ritrovamento dello straordinario scheletro di delfino (Hemisyntrachelus cortesii) protetto dalle sabbie gialle. Cioè tutto quello che accadde prima che ne scrivesse il paleontologo e geologo Federico Sacco, che l’anno dopo diede conto dei risultati del suo studio osteologico sul cetaceo fossile.

Con una premessa molto importante: “Resti di delfini si riscontrano frequentemente nei terreni pliocenici dell’Astigiana – scrisse – ma disgraziatamente essi in generale sono solo rappresentati da pochi frammenti di mediocre importanza”. Il delfino di Camerano, invece, riuscì a sorprendere il professore, “avendo avuto la fortuna di scoprire uno scheletro quasi completo“.

E adesso la storia stupisce e diverte anche noi.

Effetti del temporale e degli equivoci
Luogo del ritrovamento del delfino
Conchiglia dell'affioramento

Tutto iniziò, dice Pelissero, da un forte temporale e da un equivoco.

La pioggia si rovesciò con tale impeto su Camerano che dissestò il cortile di Lorenzo Bossola. Il contadino, per rimediare al danno, prese la mucca e raggiunse col carro località Riero per recuperare terra di sua proprietà e rimettere a posto l’aia di casa. Cominciò dunque a scavare la riva e si fermò soltanto quando vide spuntare qualcosa che attrasse la sua curiosità. Era l’8 maggio del 1891.

Due giorni dopo il prof. Jorio, residente a Camerano, contattato da Bossola, raggiunse Torino con errate certezze e si presentò a Sacco, che annotò: “portava un piccol pacco di denti, creduti d’asino“. L’occhio allenato del professore riconobbe quelli di delfino il cui ottimo stato di conservazione gli suscitò “tosto la speranza che si potesse con ulteriori scavi scoprire almeno il cranio, se pure non il resto dello scheletro”. Il paleontologo prese contatto con Bossola affinché autorizzasse lo scavo del terreno costituito da sabbie gialle, ricchissime di fossili marini: “Venutisi in breve ad un accordo, il 30 maggio io mi recava sul sito per attendere alla suddetta escavazione, i cui risultati furono superiori a ogni aspettativa”.

Dal lavoro di scavo saltò fuori lo scheletro del delfino che aveva nuotato nella acque calde del Mare Padano e, come aveva sperato Sacco, si fece trovare anche il cranio. Ciò che egli vide fu un reperto che “giaceva quasi orizzontale, coricato alquanto di lato, ma in complesso col dorso in basso, col capo rivolto a sud ovest circa”. Ma le ossa, impregnate di acqua, si rompevano facilmente, quindi Sacco ritenne prudente fare isolare “grossi blocchi sabbiosi in cui le diverse parti dello scheletro credevo dovessero trovarsi secondo qualche indizio esterno”. Il materiale fu trasportato al Museo Geologico di Torino dove fu lasciato asciugare lentamente per otto mesi, guardato a vista da Sacco, che alla fine ebbe la soddisfazione di estrarre “con ogni cura e comodità uno scheletro quasi completo, persino nelle sue parti più minute e delicate“. Dopo di che il professore iniziò l’osservazione delle ossa e concluse che quello ritrovato era un esemplare adulto di giovane età rimasto, dopo la morte, sul fondo del mare per un certo periodo prima di essere sepolto dai sedimenti sabbiosi. Forse, già senza vita, uno o più squali si erano saziati con le sue carni.

Camerano non rivide più il delfino, che divenne di proprietà del Museo Geologico e che dal 2019 ha traslocato, insieme ad altri 144 reperti fossili, ad Asti, dove è entrato a far parte delle collezioni del Museo Paleontologico non ancora esposte al pubblico. Tra questi ci sono anche i resti di altri delfini: due crani interi, e poco più, ritrovati a Cortandone e Mombercelli e la parte posteriore di un cranio recuperata a Valleandona (Asti).

Un delfino da tempo sulla bocca di tutti
Il gorgo recintato
Belvedere di Cortandone

Nel bosco dove, 130 anni fa, è apparso il delfino resiste un affioramento di conchiglie lungo una ventina di metri e alto almeno sette. Dalla terra, sottile come polvere, emergono le forme bianche dei gusci di molluschi che abitavano il mare. Il delfino viveva qui, si muoveva preferibilmente in gruppo e il suo modo di nuotare è oggi al centro di uno studio ritenuto importante: attraverso l’esame della colonna vertebrale (che rivelerà, per esempio, se fosse un tipo agile o, al contrario, poco attivo) si potrà arrivare a stabilire con precisione a quale famiglia appartenesse. “A distanza di 130 anni – riflette Michelangelo Bisconti, cetologo e ricercatore universitario – il delfino di Camerano Casasco sta continuando a fornire importanti informazioni scientifiche“.

Poi fa l’elenco di ciò che compone il suo scheletro, “uno degli esemplari di Hemisyntrachelus cortesii più completi e meglio conservati tra quelli ritrovati nel Nord e Centro Italia: il cranio con i rami mandibolari, 31 vertebre, 20 coste, 7 coste sternali, sterno, 2 arti anteriori completi di scapole, omeri, radii, ulne, alcune ossa carpali, diverse falangi e alcune epifisi vertebrali staccate”. Tanta roba.

A guardarlo composto sul tavolo del museo il delfino fa tenerezza per l’importanza della storia che si porta dietro (è vissuto circa tre milioni e mezzo di anni fa) e perché il suo scheletro allungato, che supera i due metri e pare snodato come le marionette dai fili invisibili, non mette soggezione.

Piero Damarco, il paleontologo che tutto sa di ogni singolo reperto grande e piccolo del museo, e di conchiglie, balani e tanto altro, ha atteso con trepidazione che il mammifero marino arrivasse dal Museo Regionale di Scienze Naturali di Torino: “Di tutti gli esemplari qui dentro, è quello a cui sono più affezionato”.

Voi direte che sono solo ossa. Ma lui mi spiega che quel delfino era da tempo sulla bocca di tutti (i massimi esperti), “ne ho sempre sentito parlare perché la completezza dello scheletro ne fa un pezzo unico: ha gli arti, che è una rarità trovare dopo milioni di anni, e la cassa toracica, che di solito si disperde anch’essa, è completa. Una meraviglia“.

Quando il delfino ha varcato la soglia del Michelerio, il paleontologo è stato il primo ad aprire il cassone che lo conteneva e a sfilare via le ossa dagli involucri protettivi: “Starci finalmente vicino è stata una grande soddisfazione, come quando aspetti qualcuno che tarda a comparire, ma che poi un giorno o l’altro arriva”.

La sorpresa della farnia in un bosco in cerca d'identità
La farnia sull'affioramento
Cranio del delfino di Mombercelli
Mauro Pelissero

Mauro Pelissero al museo non è ancora andato e dunque il delfino dal vivo non lo ha mai visto. Forse un giorno succederà. Conosce invece bene il luogo del ritrovamento. In questo bosco, che ha da tempo cominciato a cambiare aspetto, ci veniva da bambino con il mezzadro che curava i terreni della famiglia Jorio, il professore che scambiò per denti di asino quelli del delfino.

In quelli che erano campi coltivati, il contadino, raccontandogli la storia di una scoperta inimmaginabile, usò le parole che sapeva e che un bambino avrebbe potuto comprendere: “Qui hanno trovato il pesce grosso!“. “Ma io – ricorda Pelissero – gli unici pesci che conoscevo erano quelli del rio, quattro o cinque centimetri e non di più, per cui quando Carlo Obialero mi parlò di quel grosso pesce immaginai qualcosa lungo mezzo metro, e per me era già un’enormità! Quando scoprii il delfino e i suoi due metri di lunghezza dovetti rivedere tutto”.

Quel che vede Damarco, per il futuro, è un allestimento del cetaceo al museo che tenga fedelmente conto delle condizioni della sua scoperta: coricato di lato, proprio come tanti di noi dormono la notte, ma quasi pronto a svegliarsi e a mettersi in moto.

E quel che osserva Federico Imbriano con i suoi occhi di naturalista, è il rifugio del delfino “in un bosco di fondovalle che ha cambiato i suoi tratti originari, la vedi bene questa trasformazione da quando l’uomo ha smesso di lavorare i terreni e certe piante hanno preso il sopravvento”. Ci guardiamo intorno: la robinia, il pioppo, il noce, il nocciolo selvatico, il sambuco. C’è ancora qualche olmo, a sorpresa una piantina spontanea di canapa. E, a un chilometro di distanza, il gorgo recintato, con le canne di palude, dove si macerava la canapa.

Insomma, in un giorno d’estate, in un posto dove il delfino si è vestito di terra, ognuno di noi ha immagini e pensieri diversi. Fino a quando alziamo lo sguardo e scorgiamo tutti insieme la stessa cosa: in questo bosco, che si sta rifacendo la carta d’identità, una farnia (Quercus robur) resiste da almeno mezzo secolo, imperturbabile e bella, sopra l’affioramento delle conchiglie, le radici che lo avvolgono, la chioma slanciata e solenne.

Questo è il posto dove si può continuare a fare delle scoperte.

La prossima volta torneremo con più calma, e chissà.

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Testo: Laura Nosenzo con la consulenza di Michelangelo Bisconti, cetologo e ricercatore universitario, Piero Damarco, paleontologo e conservatore del Museo Paleontologico di Asti, Federico Imbriano, naturalista per il Distretto Paleontologico dell’Astigiano e del Monferrato e per il Parco Paleontologico Astigiano.

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Foto: Laura Nosenzo.

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(5ª puntata, 30 agosto 2021)

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Grazie a Roberto Lazzarino per il supporto logistico.