FOSSILI E TERRITORI
I nuovi pezzi del Museo Paleontologico di Asti e i luoghi in cui sono stati trovati

La balenottera e il delfino di Calunga
nel circondario di Asti
Otto delle ventisei vertebre ritrovate della balenottera
Giovanna Manfieri, Nina, amica d'infanzia di Fabrizio De André

Chissà che canzone avrebbe scritto Fabrizio De André se avesse saputo che nella valletta di Calunga, tra Revignano e Vaglierano d’Asti, in cui da bambino aveva sfogato con Nina le sue corse a perdifiato, tanto tempo prima mani contadine indurite dal tempo avevano cavato dalla terra argillosa strane e grandi ossa: e davanti a quei resti misteriosi si erano fermate, incredule e timorose, senza sapere bene cosa fare.

Viene da pensare che forse sì, ne avrebbe scritto De André se qualcuno gli avesse raccontato che in quel morbido paesaggio di prati e campi di grano, in cui Nina volava con l’altalena e insieme andavano in missione segreta a spiare, dentro a una sorgente d’acqua, le salamandre dalla pelle nera e arancio (loro ci vedevano anche dinosauri e draghi), meno di cent’anni prima erano improvvisamente spuntati dalla terra una balenottera, ed era il 1862, e un delfino, ed era il 1869.

Perché proprio lì, tra le colline dove il piccolo Bicio aveva trovato riparo con la famiglia nel 1942, fuggendo da una città di mare, Genova, ferita dai bombardamenti, c’era stato milioni di anni prima un altro mare, chiamato Padano, che, anche dopo essere scomparso, non aveva smesso di far parlare di sé con ritrovamenti eccezionali.

Oggi che anch’io sono qui, in questa campagna silenziosa e serena, vedo Giovanna Manfieri, Nina, classe 1940, stupirsi se le racconto della balena o del delfino di Calunga, il posto dove lei ha vissuto facendo la contadina e dove, durante la guerra, si è fermato Fabrizio, suo coetaneo, alla Cascina dell’Orto. E affascinarsi, Nina, nello scoprire i segreti che sa conservare la terra, finendo per restituire, poco alla volta, esemplari marini di grandi dimensioni.

“Ma adesso loro dove sono?” mi chiede.

“Al Museo Paleontologico di Asti, pochi chilometri da qui”.

Sembra rassicurata. E allora le scappa una risata e smonta la leggenda: “Macché ‘Ho visto Nina volare’!   Era quasi sempre Fabrizio che andava in altalena, io ero quella che spingeva!”. C’è un vento leggero che passa tra i salici bianchi a proprio agio lungo il rio Valleandona. E se spostiamo lo sguardo più distante, dopo i campi ancora coltivati a grano, scorgiamo il ripetitore telefonico della stazione di San Damiano, che in realtà è sempre stata nel territorio di Vaglierano (Comune soppresso nel 1929, poi frazione di Asti), nella stessa valletta dove nell’Ottocento si mostrarono senza preavviso prima la balena e poi il delfino del Pliocene.

Comprata da un contadino per poche decine di lire
Colonna vertebrale della balenottera in norma dorsale come si presenta oggi. La barra di scala equivale a 20 cm. (foto Bisconti)

La balenottera (Plesiocetus Cortesii) quando nuotava nel Mare Padano doveva essere lunga circa sette metri. Aveva grandi vertebre, le stesse che ritroviamo al Museo Paleontologico che ne custodisce ventisei: quattro toraciche, dodici lombari e dieci caudali.

Poiché le epifisi vertebrali non erano saldate ai corpi, il paleontologo Alessandro Portis nel 1885 concluse che le ossa dovevano essere di un giovane esemplare: “Le dimensioni di ciascuna vertebra – scrisse – potevano ancor essere al di sotto di quanto raggiungessero nei più grandi individui adulti”.

Nel Catalogo sui cetacei fossili rinvenuti nell’Astigiano, il professore dà atto che il ritrovamento della balenottera avvenne “presso la stazione di San Damiano (luogo detto Ca-lunga, in circondario d’Asti) nell’argilla azzurognola pliocenica”.

Nello stesso volume riporta il racconto di un altro esperto paleontologo, Bartolomeo Gastaldi, sul ritrovamento dello scheletro di Calunga dove, nell’autunno del 1862, “un contadino affossando la vigna pose allo scoperto una trentina di vertebre a cominciare dalle cervicali – le une in serie colle altre: mancava il cranio rotto e stritolato dalle ruote dei carri che passavano lungo una strada profondamente incassata nel suolo, sulla sponda della quale affioravano le prime vertebre. Quel bravo contadino credeva di avere scoperto un tesoro e quando io andai a vedere quella monca colonna vertebrale me ne chiese parecchie centinaia di lire; vedendo poi che niuno voleva spendere sì rilevante somma per possedere quel tesoro, me lo lasciò per poche diecine di lire quando il sole, la pioggia ed il piede dei curiosi già l’avevano grandemente danneggiato”.

Michelangelo Bisconti, cetologo e ricercatore universitario, ha scoperto che alcune vertebre portano l’impronta del morso di uno o più squali: “Questi segni hanno l’aspetto di solchi, lunghi alcuni centimetri e profondi diversi millimetri”. Attenzione, però, a non arrivare a conclusioni affrettate: la balenottera potrebbe non essere morta per gli assalti dei temibili predatori. Bisconti ha un’altra ipotesi: “E’ molto probabile che uno o più squali abbiano banchettato sulla carcassa ormai depositata sul fondale prima che venisse seppellita dal sedimento”.

Per come si presenta il suo scheletro, dobbiamo immaginare che, dopo la morte, la balenottera ha galleggiato a lungo sull’acqua, perdendo le pinne: ecco perché a Calunga furono ritrovati il cranio e la colonna vertebrale. Quest’ultima è arrivata fino a noi in buone condizioni anzitutto perché il seppellimento, dopo la deposizione del mammifero sul fondale, è avvenuto velocemente, evitando ai gusci di Balanidi di attaccarsi alle ossa e ad altri organismi di scavarvi gallerie. Poi perché il sedimento argilloso, un limo che gli esperti chiamano “silt”, grazie alle sue particolari caratteristiche ha potuto garantire all’esemplare adeguate condizioni di conservazione.

“Senti l’argilla, è impalpabile come il talco, invece le sabbie sono più grossolane” mi spiega Piero Damarco, paleontologo, mentre passa in rassegna le vertebre, a tratti ancora ricoperte da un velo leggero che sembra polvere, e racconta che le argille stanno sotto le sabbie, quindi sono più antiche, e dunque possiamo concludere che la balenottera di Calunga potrebbe avere all’incirca 4 milioni di anni.

Ritrovarsi in un paesaggio ricco di biodiversità
Scorcio della valletta di Calunga, riparo dei cetacei fossili
Denti del delfino perfettamente conservati

Sette anni dopo la balena venne ritrovato il delfino (Steno Gastaldii).

Con Federico Imbriano, naturalista, lo immaginiamo nuotare mentre guardiamo il paesaggio che milioni di anni fa è stato il mare. Per arrivare a casa di Nina e studiare dall’alto il territorio dove sono stati ritrovati i due grandi cetacei marini, percorrendo Strada Calunga troviamo querce, ciliegi selvatici, noccioli e un’esplosione di giallo brillante nei campi di colza. Ancora fino a qualche decennio fa c’era un viale di olmi e querce che conduceva a un antico monastero, poi trasformato in abitazione privata, ma ora non se ne colgono più i segni.

La conca che dà verso la stazione di San Damiano è attraversata dal rio Valleandona, che a monte percorre una terra ricca di fossili pliocenici e nell’areale di Calunga contribuisce a creare una zona umida ricca di biodiversità e dagli ecosistemi delicati. Anche se non è più quella di una volta, c’è ancora la pozza naturale delle salamandre, che hanno iniziato a estinguersi negli anni Sessanta; due decenni dopo le sue acque, e quelle del rio, hanno preso una colorazione scura e l’inquinamento ha fatto la sua comparsa. Erano gli anni in cui nella discarica di Valle Manina si interravano rifiuti proibiti e dall’altra parte della strada muoveva i primi passi la Riserva naturale di Valleandona e Valle Botto (1985), che da Calunga dista cinque chilometri. Solo da qualche anno, dice Nina, le acque sono tornate pulite.

Rotto il sonno e il sarcofago di terra, il delfino del Mare Padano ha consegnato di se stesso all’uomo una grande quantità di vertebre (42), oggi ancora contrassegnate dalla numerazione di un secolo e mezzo fa quando furono accolte al Museo di Geologia e Paleontologia di Torino, 14 coste, 20 denti sciolti, parti di cranio e un eccezionale rostro con mandibole e mascelle in connessione: colpiscono i denti aguzzi, perfettamente preservati.

Steno Gastaldii è un piccolo delfino, lungo meno di due metri, considerato dagli esperti un esemplare raro. In attesa di essere esposto al pubblico, è conservato nel deposito dei fossili al Museo Paleontologico, dentro un armadio, come tanti altri reperti che ancora non hanno una collocazione visibile: essendo di ridotte dimensioni, i suoi resti occupano lo spazio di un cassetto, suddivisi in piccole scatole. Le vertebre sembrano pezzi di un puzzle, mattoncini creativi per bambini, verrebbe da dire: solo un po’ più datati questi vecchi pezzi di scheletro disfatto. Il rostro ricorda vagamente la maschera a forma di becco indossata dai medici durante la peste del 1600.

C’è da sbizzarrirsi, volendo fantasticare.

Magia delle grandi ossa sulle tracce di Fabrizio De André
Resti fossili del delfino: tutto in un cassetto
Entrata di Cascina dell'Orto dove ha vissuto De André

Se avesse avuto la carta d’identità, il delfino oggi esibirebbe un documento che attesterebbe la sua lunga vita: anche per lui, come per la balena, potrebbero essere 4 milioni di anni.

Entrambi hanno vissuto nella stessa acqua salata, forse incrociandosi prima che tutto accadesse e tutto cambiasse, niente più mare, ma un lungo sconvolgimento per arrivare alla terra e agli uomini, alle forme armoniose di Calunga e a noi che davanti alle grandi ossa ci mettiamo in silenzio a impregnarci della magia di una storia misteriosa e lontana.

“La sera con Fabrizio correvamo a sentire le rane, se avessimo saputo che c’erano state le balene avremmo forse cercato qualche segnale…” riflette Nina.

Ci sono presenze che non si annunciano, arrivano e basta: come la balena e il delfino di Calunga.

Come Fabrizio De André: “E’ comparso all’improvviso a casa mia – dice Nina – nel 1997. ‘E’ passato quasi mezzo secolo e non ti sei più fatto sentire’ ho protestato. ‘Ma ti ho dedicato una canzone!’ ha risposto, curioso di domande: ‘Te la ricordi l’asinella Lidia? Quando giocavamo ai camerieri e portavamo il vino da bere ai contadini nei campi?’ E quando.. E poi…”.

E lì, in quell’esatto momento, Nina ha ricominciato a volare.

Testo: Laura Nosenzo con la consulenza di Michelangelo Bisconti, cetologo e ricercatore universitario, Piero Damarco, paleontologo e conservatore del Museo Paleontologico di Asti, Federico Imbriano, naturalista per il Distretto Paleontologico dell’Astigiano e del Monferrato e per il Parco Paleontologico Astigiano.

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Foto: Laura Nosenzo.

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Grazie a Beppe De Mita, storico presidente della Circoscrizione Revignano-Vaglierano, Carlo Alberto Goria per le cartografie storiche messe a disposizione, Paolo Finotto  e Carmen Piteo che ci hanno aperto Cascina dell’Orto, Davide Migliasso, sindaco di San Damiano, venuto con noi alla scoperta di Calunga, Barbara Molina per le ricerche all’Archivio Storico del Comune di Asti.

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(2ª puntata, 24 maggio 2021)