Dovrei fare i complimenti a Nicki, ma Nicki non c’è più. E’ stato lui, per primo, a scoprire il dugongo della Cremosina.
Nicki era un incrocio tra una cockerina e un setter irlandese. Gli piaceva scavare e lo fece anche un giorno d’autunno del 1984. Ma anziché fare il buco per seppellire un osso, fu l’osso del sirenide a trovare lui. Il suo padrone gli era vicino e vide venire fuori dalla terra qualcosa che assomigliava a un sasso, ma più scuro: “Quindici centimetri di diametro – ricorda Valter Barberis – e da un lato aveva i segni di un tessuto spugnoso: più che una pietra, ricordava un osso“.
Forse perché aveva sviluppato una forte propensione a osservare, forse perché essere veterinario gli fu di aiuto, Barberis capì che quello che aveva in mano era qualcosa di molto particolare. Divenne eccezionale una volta che, per frenare l’istinto di Nicki a continuare a scavare col rischio di compromettere eventuali altri reperti, riportò a casa il cane, tornò sul bricco guardato dai cipressi e con le mani cominciò a togliere la terra intorno al buco fatto dal cane. Comparve un pezzo di colonna vertebrale e ogni grande resto cominciò a svelare indizi per comporre una storia inattesa e straordinaria: “Le dimensioni dei segmenti ossei facevano pensare a qualcosa di grosso: forse una balena o un delfino. Forse un serenide“.
Barberis condivise la sorpresa del ritrovamento con l’amico Lorenzo Mariano Gallo, geologo nicese; riempì una cassetta di reperti fossili e la consegnò agli esperti del Museo Regionale di Scienze Naturali, Daniele Ormezzano e Franca Campanino Sturani. Tutto questo dopo aver tenuto la notizia segreta e ricoperto con la terra quel primo segmento di scheletro dell’animale preistorico che non aveva ancora una precisa identità.
Concorsero, secondo Barberis, varie coincidenze fortunate a portare allo scoperto i resti dell’animale che aveva nuotato nelle acque calde del Mare Padano, vicino alla costa, all’incirca due milioni di anni prima: “In quel ponte dei Santi dell’84, quando Nicki scavò, faceva particolarmente caldo e il terreno, completamente asciutto, venne via facilmente. Le vertebre si rivelarono sotto uno strato superficiale di terra, condizione facilitata dal fatto che, qualche anno prima, per agevolare i lavori agricoli, il crinale del bricco era stato abbassato con l’asportazione di una grande quantità di materiale”. Quello che per milioni di anni era stato il rifugio del dugongo, in uno riparo sicuro di sabbie astiane, si rivelò alla fine talmente poco profondo da riportare alla luce i resti fossili senza eccessivo sforzo.
Il 1985 fu l’anno dello scavo, del recupero e trasferimento al museo di Torino del reperto e del riconoscimento ufficiale della sua origine: un esemplare adulto di sirenio, forse femmina per le sue dimensioni non troppo pronunciate, probabilmente predato dopo la morte; sicuramente con le vertebre danneggiate seriamente dal passaggio di un aratro.
Qualche tempo dopo l’asportazione del mammifero marino, Barberis tornò a passeggiare sul bricco e a cercare nuovi indizi: saltarono fuori altri resti, tra cui un pezzo di mandibola con tre denti che richiamarono la sua attenzione: “Uno aveva un’enorme carie, un caso piuttosto raro di paleopatologia, che potrebbe aver portato l’animale a uno stato di denutrizione tale da farlo spiaggiare e morire”.
Custodito al Museo Regionale di Scienze Naturali, il sirenide non è mai stato esposto al pubblico e da quando è stato trovato e studiato da Giorgio Pilleri, specialista di dugonghi, ha un nuovo nome (Metaxytherium subapenninum) che supera quello di Felsinotherium subapenninum. Privo del cranio, è stato ricomposto per circa il 30 per cento dello scheletro; tutto il resto è ancora da trovare e a Nizza c’è chi spera che un giorno i paleontologi ricomincino a cercare. Per questo il luogo del ritrovamento resta segreto, ma già “solo” quella parte di ossa sottratte al buio costituisce, secondo gli studiosi, uno dei ritrovamenti più importanti del Nord Italia.
Barberis si leva con franchezza dai complimenti: “L’unico mio merito è stato quello di non scambiare l’osso trovato dal cane per un sasso e di non avergli dato un calcio”.
Vado con Lorenzo Mariano Gallo a fotografare il Bricco della Cremosina, in un contesto di particolare bellezza paesaggistica (siamo nei territori Unesco): all’epoca partecipò attivamente al recupero del dugongo e per gli incarichi che ha svolto (da quattro anni è in pensione dopo essere stato conservatore di geologia e mineralogia al Museo Regione di Scienze Naturali) è un pozzo di saperi. Mi parla di segnalazioni ormai datate, in Valle Belbo, di grandi vertebrati (un rinoceronte a Incisa per esempio), poi anche di un elefante o di un mastodonte, di una collezione di foglie fossili da lui composta, conservata al Museo di Asti, e di tanto altro. Gli chiedo se questi luoghi potrebbero svelare molto di più: “A pelle – mi risponde – ciò che è stato trovato è più o meno il 10 per cento di quello che potrebbe esserci. Siamo autorizzati a pensare che di fossili ce n’è ovunque“.
Lo scopritore del dugongo ha la collina dei cipressi nel cuore, l’amore per la storia e l’istinto del cercatore. Proprio alla Cremosina nel Novecento, mi racconta, durante i lavori agricoli sono stati trovati, a più riprese, molti reperti ossei e laterizi riconducibili a inumazioni di antichissime epoche. La terra continua a regalare all’uomo ciò che ha stretto a sé per un tempo infinito.
Barberis e Gallo custodiscono qualche segreto e storie incantevoli. Bisognerà tornare a trovarli.