FOSSILI E TERRITORI
I nuovi pezzi del Museo Paleontologico di Asti e i luoghi in cui sono stati trovati

I sirenidi di Montiglio e Nizza Monferrato
Il dugongo in una riproduzione da internet
Segni di squalo sul sirenide di Montiglio

Hanno nuotato nello stesso mare, milioni di anni fa, dove adesso ci sono le colline di Montiglio e Nizza Monferrato: stessa posizione prossima ai fondali, stesse praterie di piante acquatiche. Ma per scomodare l’interesse degli uomini, che nemmeno li stavano cercando, hanno scelto tempi diversi: nell’Ottocento i due esemplari fossili di Montiglio Monferrato, un secolo più tardi quello di Nizza.

A me piacerebbe chiamarli dugonghi, perché è una parola simpatica, ma Piero Damarco mette subito i puntini sulle i: il termine scientificamente corretto per parlare di quegli esemplari vissuti nel tardo Pliocene/Quaternario Inferiore è sirenii (ordine al quale appartengono ancora oggi dugonghi e lamantini), che poi nel linguaggio comune diventa sirenidi.

Per farmelo piacere un po’ di più, questo nome, Damarco ricorre al mito e mi racconta che il nome sirenio riporta alle sirene, per metà donne e per metà pesce, perché l’imponente mammifero acquatico aveva, e ha tuttora, grandi mammelle alle quali tiene accostato il cucciolo con le pinne per allattarlo, in un abbraccio materno che ricorda quelli che anche noi abbiamo ricevuto e dato.

CHI ERA IL SIRENIO E COME VIVEVA?

Animale acquatico possente (poteva raggiungere fino ai 500 chili di peso e una lunghezza di oltre 3 metri), il sirenio preistorico era un mammifero erbivoro e viveva nelle acque basse del mare alimentandosi di grandi quantità di alghe e piante marine. Risaliva in superficie per respirare e poi tornava a inabissarsi: vivere ai ``piani bassi`` del Mare Padano gli consentiva di ridurre gli incontri indesiderati, per esempio con gli squali. Poco aggressivo, propenso al riposo, amava la vita di gruppo, quindi si muoveva in compagnia dei suoi simili. Aveva una forma goffa, molto lontana da quella aggraziata di delfini e balene. Non per niente il sirenio, presente ancora oggi lungo la costa orientale dell'Africa, viene chiamato ``vacca di mare``. Cacciato per lungo tempo, attualmente viene considerato a rischio di estinzione.

Dugonghi dentro e fuori il Museo di Asti
Lo scavo alla Cremosina (Archivio Barberis)
Il dugongo di Montiglio in quattro casse

Il dugongo di Nizza posso solo immaginarlo, al massimo osservare le sue grandi ossa nelle fotografie che documentano l’emersione dalla terra del Bricco Cremosina nel 1984. La storia è bella e ho la fortuna di farmela raccontare dal suo scopritore.

I due esemplari di sirenio ritrovati in tempi diversi, nell’Ottocento, a Montiglio li ho invece davanti a me, conservati negli armadi e nelle casse del deposito del Museo Paleontologico di Asti che li ha ricevuti dal Museo Regionale di Scienze Naturali di Torino. Un’operazione molto importante che ha consentito nel 2019 di restituire all’Astigiano, dove avevano vissuto 3,5-3 milioni di anni fa, 145 reperti fossili appartenuti al Museo di Geologia e Paleontologia dell’Università di Torino.

Mai esposti al pubblico per mancanza di spazio e decisamente meno popolari delle balenottere e dei delfini fossili che abbiamo imparato a conoscere, i due scheletri di dugongo (uno completo, l’altro frammentato) arricchiscono la collezione preistorica del museo. Gli studiosi concordano nel dire che i ritrovamenti dei sirenidi astigiani sono tra i più significativi del nostro Paese.

Morsi di squalo sulle ossa trovate al castello
Cartellino storico con costa
Scorcio del giardino di Villa Cocconito

I sirenii (Felsinotherium subapenninum) di Montiglio Monferrato sono passati nelle mani di alcuni degli esperti che hanno fatto la storia della paleontologia italiana. Dopo il primo ritrovamento del 1828, Eugenio Sismonda, professore di storia naturale, nel 1835 volle tornare a Montiglio dove estrasse avanzi di un secondo scheletro ma, a differenza del primo, dovette constatare “con dispiacere che non era possibile il tirarne alcun profitto”.

A raccontarlo, nel Catalogo sui cetacei fossili rinvenuti nell’Astigiano (1885), è il paleontologo Alessandro Portis, presidente della Società geologica italiana nel 1905: “I frammenti di vertebre e di coste che abbiamo dinanzi, quantunque assai numerosi, sono tutti troppo incompleti e troppo impastati nella roccia perché si possa di loro dare una descrizione qualunque; il cranio e tutte le parti delle estremità mancano completamente e solo la natura delle ossa e la forma delle coste ci indicano che noi abbiamo a che fare con un Sirenoide”.

Un particolare gli fu chiaro: “Noterò come alcune coste di questo scheletro dimostrino, cogli intagli che portano, che l’animale, prima di essere sepolto fra i depositi marini, venne violentemente spogliato delle carni per opera degli Squali“.

Anche l’esemplare estratto dalla terra sette anni prima saziò la fame dei temibili predatori. A distanza di milioni di anni i segni incisi sulle coste fossilizzate restano perfettamente visibili e sono numerosi. Il sirenio, lungo quasi due metri, ha la cassa toracica divisa in due ed è arrivato fino a noi con il cranio, in cui sono riconoscibili le fosse nasali, parte della mandibola “e vertebre – osserva Damarco – che hanno mantenuto la successione anatomica, il che significa che, nonostante l’attacco degli squali, non ci sono parti disarticolate e che la carcassa dell’animale è stata seppellita velocemente dai sedimenti marini”.

I due esemplari sono accompagnati dai cartellini storici con cui furono catalogati al Museo Geologico di Torino subito dopo il ritrovamento: si legge con chiarezza il nome di Montiglio.

A proposito di nomi, il sirenide ritrovato nel 1828 ne ha avuti due: descritto nel 1839 dallo studioso Domenico Bruno come Cheirotherium subapenninum, trentatre anni dopo fu inserito nel genere Felsinotherium subapenninum dal professor Giovanni Capellini, geologo e tra i maggiori studiosi e collezionisti di fossili dell’epoca. Lo stesso che raccolse nel museo di Bologna che porta il suo nome i mastodonti vissuti a Valle Andona (Ca’ dei Boschi) e Cinaglio.

Dopo la visita al Museo dei fossili, vado a Montiglio per cercare di rintracciare i luoghi dove i sirenidi pliocenici hanno riposato all’insaputa di tutti. Il Portis mi indirizza “nel giardino della villa Cocconito” (oggi indicata, sul muro esterno, come Convento di San Sebastiano) che nell’Ottocento poteva essere stata parte integrante del parco del castello. Forse è per questo che nel libro “Montiglio” di Rino Mandrino leggo che “nel 1835, nel bosco del castello, durante gli scavi eseguiti per lavori, venne ritrovato un grande scheletro di animale fossilizzato”.

Altre tracce tangibili sui sirenii non ne trovo, mentre sono vivi e animati i ricordi di Piercarlo Negro, che mi accompagna, sulle “quantità di conchiglie che noi ragazzi dell’oratorio raccoglievamo, grattando con le mani le pareti di tufo di Sotto Balma“. Andiamo a vedere l’affioramento ricoperto dalla vegetazione: grattare anche noi o non grattare? Guardare e non toccare. Il mare è passato di qui, ce lo dice la terra, lasciandoci in custodia qualcosa di sé, grande o piccolo che sia – dai dugonghi alle conchiglie – che ancora ci fa emozionare.

Nicki e la fortuna di fare i buchi per terra
Magia del Bricco Cremosina a Nizza
Valter Barberis, scopritore del sirenide

Dovrei fare i complimenti a Nicki, ma Nicki non c’è più. E’ stato lui, per primo, a scoprire il dugongo della Cremosina.

Nicki era un incrocio tra una cockerina e un setter irlandese. Gli piaceva scavare e lo fece anche un giorno d’autunno del 1984. Ma anziché fare il buco per seppellire un osso, fu l’osso del sirenide a trovare lui. Il suo padrone gli era vicino e vide venire fuori dalla terra qualcosa che assomigliava a un sasso, ma più scuro: “Quindici centimetri di diametro – ricorda Valter Barberis – e da un lato aveva i segni di un tessuto spugnoso: più che una pietra, ricordava un osso“.

Forse perché aveva sviluppato una forte propensione a osservare, forse perché essere veterinario gli fu di aiuto, Barberis capì che quello che aveva in mano era qualcosa di molto particolare. Divenne eccezionale una volta che, per frenare l’istinto di Nicki a continuare a scavare col rischio di compromettere eventuali altri reperti, riportò a casa il cane, tornò sul bricco guardato dai cipressi e con le mani cominciò a togliere la terra intorno al buco fatto dal cane. Comparve un pezzo di colonna vertebrale e ogni grande resto cominciò a svelare indizi per comporre una storia inattesa e straordinaria: “Le dimensioni dei segmenti ossei facevano pensare a qualcosa di grosso: forse una balena o un delfino. Forse un serenide“.

Barberis condivise la sorpresa del ritrovamento con l’amico Lorenzo Mariano Gallo, geologo nicese; riempì una cassetta di reperti fossili e la consegnò agli esperti del Museo Regionale di Scienze Naturali, Daniele Ormezzano e Franca Campanino Sturani. Tutto questo dopo aver tenuto la notizia segreta e ricoperto con la terra quel primo segmento di scheletro dell’animale preistorico che non aveva ancora una precisa identità.

Concorsero, secondo Barberis, varie coincidenze fortunate a portare allo scoperto i resti dell’animale che aveva nuotato nelle acque calde del Mare Padano, vicino alla costa, all’incirca due milioni di anni prima: “In quel ponte dei Santi dell’84, quando Nicki scavò, faceva particolarmente caldo e il terreno, completamente asciutto, venne via facilmente. Le vertebre si rivelarono sotto uno strato superficiale di terra, condizione facilitata dal fatto che, qualche anno prima, per agevolare i lavori agricoli, il crinale del bricco era stato abbassato con l’asportazione di una grande quantità di materiale”. Quello che per milioni di anni era stato il rifugio del dugongo, in uno riparo sicuro di sabbie astiane, si rivelò alla fine talmente poco profondo da riportare alla luce i resti fossili senza eccessivo sforzo.

Il 1985 fu l’anno dello scavo, del recupero e trasferimento al museo di Torino del reperto e del riconoscimento ufficiale della sua origine: un esemplare adulto di sirenio, forse femmina per le sue dimensioni non troppo pronunciate, probabilmente predato dopo la morte; sicuramente con le vertebre danneggiate seriamente dal passaggio di un aratro.

Qualche tempo dopo l’asportazione del mammifero marino, Barberis tornò a passeggiare sul bricco e a cercare nuovi indizi: saltarono fuori altri resti, tra cui un pezzo di mandibola con tre denti che richiamarono la sua attenzione: “Uno aveva un’enorme carie, un caso piuttosto raro di paleopatologia, che potrebbe aver portato l’animale a uno stato di denutrizione tale da farlo spiaggiare e morire”.

Custodito al Museo Regionale di Scienze Naturali, il sirenide non è mai stato esposto al pubblico e da quando è stato trovato e studiato da Giorgio Pilleri, specialista di dugonghi, ha un nuovo nome (Metaxytherium subapenninum) che supera quello di Felsinotherium subapenninum. Privo del cranio, è stato ricomposto per circa il 30 per cento dello scheletro; tutto il resto è ancora da trovare e a Nizza c’è chi spera che un giorno i paleontologi ricomincino a cercare. Per questo il luogo del ritrovamento resta segreto, ma già “solo” quella parte di ossa sottratte al buio costituisce, secondo gli studiosi, uno dei ritrovamenti più importanti del Nord Italia.

Barberis si leva con franchezza dai complimenti: “L’unico mio merito è stato quello di non scambiare l’osso trovato dal cane per un sasso e di non avergli dato un calcio”.

Vado con Lorenzo Mariano Gallo a fotografare il Bricco della Cremosina, in un contesto di particolare bellezza paesaggistica (siamo nei territori Unesco): all’epoca partecipò attivamente al recupero del dugongo e per gli incarichi che ha svolto (da quattro anni è in pensione dopo essere stato conservatore di geologia e mineralogia al Museo Regione di Scienze Naturali) è un pozzo di saperi. Mi parla di segnalazioni ormai datate, in Valle Belbo, di grandi vertebrati (un rinoceronte a Incisa per esempio), poi anche di un elefante o di un mastodonte, di una collezione di foglie fossili da lui composta, conservata al Museo di Asti, e di tanto altro. Gli chiedo se questi luoghi potrebbero svelare molto di più: “A pelle – mi risponde – ciò che è stato trovato è più o meno il 10 per cento di quello che potrebbe esserci. Siamo autorizzati a pensare che di fossili ce n’è ovunque“.

Lo scopritore del dugongo ha la collina dei cipressi nel cuore, l’amore per la storia e l’istinto del cercatore. Proprio alla Cremosina nel Novecento, mi racconta, durante i lavori agricoli sono stati trovati, a più riprese, molti reperti ossei e laterizi riconducibili a inumazioni di antichissime epoche. La terra continua a regalare all’uomo ciò che ha stretto a sé per un tempo infinito.

Barberis e Gallo custodiscono qualche segreto e storie incantevoli. Bisognerà tornare a trovarli.

Testo: Laura Nosenzo con la consulenza di Piero Damarco, paleontologo e conservatore del Museo Paleontologico di Asti.

Foto: Laura Nosenzo.

xx

(8ª puntata, 29 novembre 2021)

xx

Grazie a Ausilia Quaglia per i preziosi contatti in terra nicese.